venerdì 23 dicembre 2011

La grottesca intervista al personaggio di uno scrittore nell'ultimo romanzo di Mariano Bargellini

Tratto da La setta degli uccelli, Il corbo, Ferrara 2010


La visita di uno scocciatore impone allo scriba (che se ne scusa con il lettore), a lui e al suo treno di parole impone un ritardo e una digressione. E non poteva saltarla, tacerla, allora, la visita di quello scocciatore? Lui vi risponde, arguti lettori, che no. E perché mai? Si spieghi. Perché la visita suddetta, come voi sentirete, è la spia rossa, il segnale di massima allerta, accesosi nel suo cervello, di un evento da rabbrividirne, celato al presente. Lo dico?: il trionfo del ròbot. Anzi, qualcosa di più (e di peggio): la robotizzazione della nostra specie: la specie Homo sapiens. Sperimentata sulle blatte, per ora, la robotizzazione suaccennata. La normalizzazione (mi scuso per la cacofonia: da politichese, ripetuta) di Homo sapiens! Siamo infatti da classificare, noi specie Homo sapiens, come un lapsus naturae, si sa. Ma è terribile, ‘sto progetto. Rispondo: ma è ridicoloso, ‘sto fatterello. Cioè la visita dello scocciatore. Ed è ben recitato dal personaggio lo sketch da rabbrividirne: sicché sarà, vedrete, un intermezzo comico.

Ho concesso un’intervista a un domatore di scarafaggi. L’insensatezza di una tale frase è evidente, ma subdola. Avessi detto “domatore di pulci”, un minimo di credibilità quest’asserzione, forse umoristica, l’avrèbbe ottenuto, chissà. Ma “domatore di scarafaggi”. E nondimeno. E nondimeno, per suggestione del teatrino delle pulci e del regista in frack e cilindro che le governa, il detto intervistatore (da cabaret?, da satira?) acquista verosimiglianza, subdolamente. Sì, il lettore, tuttoché perplesso, va a finire che ci crede. Ci crede alla lettera. O non l’esclude a priori, che qualche circo abbia ‘sto numero in cartellone, il teatrino degli scarafaggi o blatte. Cosicché, “ho concesso un’intervista a un domatore di scarafaggi”, gli sembrerà una frase assurda, un’asserzione falsa, e, se si tratta di un’ironia, oscura. E il fatto, ne segue, impossibile, non scherziamo. Ma per un’altra ragione, che non il metter in dubbio ch’esistano, e che esercitino la loro arte, i domatori di scarafaggi. Ma sotto il tendone del circo, magnificati da mega-schermo! Ma non a casa d’uno scrittore, e che lo intervistino (per la tivù la radio le gazzette) i domatori di scarafaggi! È compito del recensore di libri, di chi sunteggia sul mio giornale le novità della narrativa, e non di un artista del circo, egli obietterà, intervistare, anche a domicilio, seduto al suo scrittoio, un qualsivoglia autore di successo. Ma di successo! Un romanziere importante! Uno di quelli seri: uno che ci va coi piedi di piombo a fare il pazzo sulle carte. Sicché, di lui, nessuno potrà dire: er hat einen Vogel. Eh, ha un uccello (nella testa). Sì, importante, e di successo. Sì, uno serio, professionale: e un virtuoso dei generi, un mago del pastiche, capace di cucinarmi un noir de haute cuisine. A mo’d’esempio, un noir con il ripieno rosa. Magari, un noir erotico e gastronomico.
Ohimè, io non lo nego, ich habe einen Vogel, ho un uccello (nella testa). Andarci con i piedi di piombo a fare il pazzo sulle carte? Ohimè, non ci riesco: me lo vieta la mia leggerezza. Le mie penne le mie ali le mie ossa cave mi costringono, vedete, a codesto va e vieni da uccello. Sì, la trama del romanzo, la sua fabula aerea, la disegna per appunto un uccello: nell’aria la disegna, con i suoi voli per diletto, gioco, diporto. La Setta degli Uccelli, ecco qual è il mio contubernio. È il collegio degli augures la conventicola cui io appartengo. Ho dei contatti, solo in sogno, conforme alla nostra regola, con esseri pneumatici, con entità umbratili, coi simulacri dell’Ade onirico, quanto a compagnie umane. Quanto a “gente piccola e canora”, anche nell’al di qua della veglia: con gli uccelli dei boschi e dei parchi. Nell’aldilà del mondo immaginale, colle umbraculae ho contatti: uccelli-fantasma della voliera dell’anima. E non per tanto, si sappia, un domatore di scarafaggi, con una videocamera digitale, mi ha intervistato. Me consenziente.
La Torre, non dimentichiamolo, ha dei condomini abusivi, ovvero topi e scarafaggi. Una curiosità da entomologo, un hobby raro, coltivato da pochi, e interesse ingegneresco per delle macchinine viventi dalla carrozzeria appiattita, di un bel nero lucido, veloci e zigzaganti, hanno sedotto, un passo dopo l’altro, un ingegnere elettronico a stringer amicizia con delle blatte. Questo lo ignoravo, come chiunque nella Torre, quando ho ricevuto la sua telefonata e quella sua richiesta inattesa, bizzarra. Tale da farmi sospettare non so che trappola. Uno in familiarità con le intelligenze artificiali, abituato a conversare per dieci ore al giorno con elaboratori elettronici le cui risposte, chiare e nette, non peccano d’ambiguità, e non sconfinano nel metaforico: tutt’al contrario (dovrèbbe saperlo) delle mie, cervello imaginifico, bislacco e bistorto; ma perché mai voleva intervistarmi? Che interesse aveva?
Acconsentii, un po’ inquieto, alla garbata richiesta dell’ingegnere della scala A, un single di carattere schivo, di voce piana e persuasiva: il persuasore dell’impaccaggio della Torre, e il fautore della insegna gentilizia del condominio, un gufo e una civetta con gli occhiali da sole Armani. Un single universalmente stimato. Un professore del Politecnico. Quale sarà il vero motivo della sua visita?, io riflettevo, posato il ricevitore. Quello che dichiarò al telefono? Qualche domanda sulla letteratura, oggi. [Ah, non sapevo, che una cosa talmente superflua, e démodée, ancora esistesse, oggi.] Per l’esattezza, sulla fiction cartacea. Delle domande perplesse, m’avvertì, d’uno lontano dalla fede (sic) e dalla pratica (voleva dire: dalla lettura?) a un asceta e padre del deserto (sic). Domande impertinenti, che fui d’accordo fossero a sorpresa. Che è la regola aurea, il bello dell’intervista. [Qui ci occorre un’altra parentesi quadra: qui, tra parentesi quadre, va inserita una postilletta. Me lo avesse detto subito: Non le dispiace se vengo a trovarla con le mie bestioline? Con le mie blatte addomesticate? Anzi!, sarei sbottato a ridere, gioviale: Io le vedrò con piacere.]
L’appuntamento, una domenica. All’ora del caffè. I suoi impegni cibernetici, all’università, e l’essersi maritato, anziché a un uccello-umbracula, alle intelligenze artificiali, lo tengono occupato dal lunedì al sabato il mio intervistatore. E spesso fino a notte. Una telefonata cerimoniosa per chiedermi conferma dell’intervista, sempre che non m’incomodi, e protestandosi onorato (anca mo?, ma com’è complimentoso!), e ringraziandomi per la disponibilità, mi preannuncia il suo arrivo. Di lì a poco suona il campanello: e il suo numero da circo, il numero degli scarafaggi, ha luogo immediatamente, lì in ingresso, ancora invischiati in convenevoli arguti. Ha un esordio semiclandestino l’abominevole sketch: l’occhio, attratto dal risvolto dei suoi calzoni, scende incredulo dalla sua mano sinistra e dalla videocamera digitale, che s’è passato nella sinistra, dovendo darmi la destra, alla suddetta inquadratura: da film della nouvelle vague, da cineteca. E qui rimane fisso, affascinato, l’occhio dello scriba. Dalla trincea di stoffa, intendo dal risvolto dei suoi calzoni, sono spuntate delle antenne, nere, oscillano titubanti, dopo di che dei gomiti filiformi, neri, issano fuori un testoncino, uno per ciascun paio d’antenne, nero, tirato a lucido. La nota maschera d’ebanite flagello e abominio della Torre! Soltanto inferiore, per odiosità, un simile flagello, ai topi.
« Lo sapevate, cari ascoltatori, che ne uccide tre volte di più, in un anno, il tappo delle bottiglie di champagne che non la puntura del famigerato ragno nero? »
« Ah sì? E figuriamoci quante volte di più della puntura di una blatta. Non pungono, nevvero?, non hanno pungiglione, né veleno, le blatte. »
Discesegli di corsa dalle scarpe (sotto i miei occhi increduli, che traveggono, confondendosi, a seguirle) le sue si sono irradiate zigzagando per il piancito dell’ingresso. A parossistica velocità. Avevo le traveggole? Le macchinine telecomandate! Dal suo cervello telecomandate! A crepe buie, subitanee, incise da un terremoto nel pavimento dell’ingresso, mi viene fatto di paragonarle. Anch’io ho un’intelligenza artificiale. Nel senso della capacità, propria della mia immaginativa, a illuminar la pagina con i fuochi artificiali. I fuochi d’artificio delle metafore illuminanti. Stupefacenti, se non altro.
Sono misantropo, eppure ho simpatia per gl’insetti, quantunque siano automi, si sa, in ciò assomigliando agli uomini, e dunque ai condomini della Torre, che odio, tutti, tranne d’Annunzio. La bonomia e lo humour del mio commento sugli scarafaggi, il mio sdrammatizzare l’invasione e l’accettare la piega scherzosa ch’egli tentava di imporre, con una baggianata sentita da una qualche radio commerciale, all’incidente increscioso, han messo l’ospite a proprio agio. Ce n’era poi bisogno?
« Hanno capacità di scelta, vede?, sono decisionisti i servomeccanismi e si dirigono, di gran premura, verso la meta. La meta provvisoria che ciascheduno di loro s’è scelta, senza pensarci su troppo. Il caos dell’individualismo, avrà notato, regna tra loro. Peggio che nella nostra società. Si sono sparpagliati in varie direzioni, i servomeccanismi naturali, gli scarafaggi. Il dono e il rischio del libero arbitrio. E il disordine, il caos. Come tra noi. Dei ròbots miniaturizzati, che la Natura, nel Triassico superiore, ha progettato assemblato e programmato. Un assemblaggio di biomateriali, di pezzi, per delle macchinine cibernetiche. Si sono rimpiattati in vari punti di casa sua, gli scarafaggi. Angoli bui, preferibilmente. Meglio ancora in un buco, in una crepa. Non tema, conclusa l’intervista, ovunque si siano cacciati, verranno fuori. Mi correranno dietro come dei cagnolini, vedrà. Oltre al libero arbitrio, alla capacità di scelta e di tradurre i loro passaggi mentali in un impulso cinetico, nel movimento verso una meta, hanno memoria dei luoghi e delle persone: di me, di cui si fidano ciecamente (verrèbbero in capo al mondo, con me), e della loro dimora (e mia), dove coabitiamo, senza problemi. »
L’ho introdotto nel mio studio. E lì ho cominciato a ubbidire, con docile deferenza, a un regista autorevole i cui consigli garbati, sul come star seduto allo scrittoio, sull’atteggiarsi amabilmente, non corrugare la fronte, grazie, sorridere simpatico, piuttosto, tirar indietro le spalle, bene, così, non pencolare da una parte, quasi giocassi a far la marionetta, oh no!, quasi lì lì per cascare dalla sedia, suonavano come le istruzioni a un attore date da un regista ammodo. Che non ammette discussioni però. Registici comandi. La lampada a stelo, m’ha ordinato di spostarla; davanti me l’ha messa; me l’ha puntata negli occhi. Lui mi si è seduto in faccia, dall’altro lato dello scrittoio. Sbircia nel monitor della sua videocamera digitale: «Inizio. Siamo pronti? Ciak!» La spia rossa si è accesa.
« Una fiction televisiva, o un reality show, tipo L’isola dei famosi o tipo Il Grande Fratello, praticamente, secondo un sondaggio tra i lettori di romanzi, è più interessante, cioè ti prende e ti coinvolge, più di qualunque fiction scritta. Cartacea voglio dire. Oppure, ma, fa lo stesso, più di un qualsiasi avvincente e perfetto reality show cartaceo. Nel senso d’un romanzo da leggere: in treno in aereo in métro, o sotto l’ombrellone, alle Bahamas. Anche di un best seller: col record delle scene di sesso, degli ammazzamenti sadici, o, in alternativa minimalista, dei fatti e dei problemi quotidiani. Cioè, la vita d’ogni giorno, voglio dire. Con le sue problematiche. E con un sacco di ricette della cucina antica cinese. Un inventore di storie legato alla carta, cartaceo, questa la prima domanda, come si pone davanti al problema evidenziato da quel sondaggio? E cosa pensa di fare per rimanere competitivo? »
Ero servito: il domatore di scarafaggi, devo ammetterlo, m’aveva chiuso nell’angolo. Una gragnuola di pugni, questa sua prima domanda. Colpi a freddo, cattivi: non mi restava, chiuso in un angolo del ring e rintronato dai suoi colpi, che avvinghiarmi al mio picchiatore. Ma come un serpente boa! Basta, amici, basta!, dico sul serio. Sì, ho scherzato, fin troppo. Codesto Super-Automa, la cui intelligenza ingegneresca eguaglia quella, artificiale, delle sue macchine cogitanti, dei suoi conversevoli automi, di modo che gli è facile, al genio, intendersi colle blatte, e che è all’altezza, ne segue, d’un qual tu voglia recensore d’ufficio (stampa) di novità della narrativa su quotidiani di alto bordo e su settimanali chic: e per approccio all’argomento e per acume critico lo è; insomma, basta, amici! Sì, ora basta, dico sul serio. Oh cazzo, ma che vuole da me, costui? L’istinto fu di alzarmi dalla sedia; il mio proposito fu di comunicargli, glaciale, che l’intervista era conclusa, per me; accompagnandolo alla porta io gli avrei rammentato il suo impegno, la sua promessa: chiamare le sue blatte, eventualmente catturarle, ficcarsele in tasca e riportarsele a casa. Invece, ecco, lo spiritello buffone che in diversa compagnia, da qualche tempo, ha occupato una zona (io non so quale) del mio cervello, oh, lui (non mica altri) mi tiene fermo sulla sedia. Mi ordina, da dentro, dalla sua buca del suggeritore, tappandomi la bocca, che gli risponda con una smorfia, ribatta con una facezia muta. Una buffoneria espressa solo con la faccia. Mi ordina, precisamente, di sbattere le palpebre, sorpreso, di spòrgere le labbra, d’aguzzarle, e muoverle dipoi quasi ciucciassi, quasi mi risucchiassi le parole di sulle labbra, la loro bava muta, e, per finire, di atteggiare la mia faccia in una espressione desolata: ma non da uomo e da scrittore: da scimmia, dietro le sbarre d’una gabbia. Annichilito dal risultato del sondaggio, senza parole, sembrare una scimmia, proprio. Seduta lei allo scrittoio, qui al mio posto. Sì, una scimmia incatenata alla sedia. Che altro è un homo fictor se non la scimmia di Dio, simia dei?
Taceva anche lui, il mio intervistatore; e non mi ripeté la domanda. Ho visto la sua faccia grossa, professorale e plebea, illuminarsi d’un sorriso furbo. Di un sorriso di trionfo. Spegne la videocamera, posata sul vocabolario Fanfani, e: « Ottima trovata » esclama. « Quando non c’è risposta, a suo parere, nel senso che la risposta è contenuta già nella domanda (una domanda retorica, vero?), può anche non rispondere. E complimenti per l’espressività della sua faccia: segue un corso di mimo? Il suo silenzio, probabilmente, si commentava da solo. Ma l’espressione della sua faccia, vedrà, lo sottolinea, lo enfatizza. Lo ottimizza, vedrà. Lo spiega al di là d’ogni dubbio. La smorfia che lei fa è la didascalia di quel silenzio. OK, procediamo. Siamo pronti? Domanda numero due: i dialoghi di una fiction cartacea scritta a regola d’arte, quelle battute quelle sparate, il turpiloquio e le esternazioni dei giovani al pub, non sono verosimili. SONO VERI. Il romanziere professionale si è servito, è chiaro, di un registratore professionale, chiaro: di modo che i giovani ci sembra d’ascoltarli, dal vivo, nei loro bar della notte. LIVE. Il loro gergo giovanile, stupendo, ci è restituito dalla pagina, OK: ci mancano, però, le loro musiche assordanti, a fare da colonna sonora. Il romanziere professionale i dialoghi dei giovani al pub li riascolta seduto al computer: e via, direttamente (dei surgelati Findus nel tegame), li versa nella pagina, nel file. Molto professionale. Le musiche, però? Al non sentirle, non ha un dubbio? (mi metto nei suoi panni): non è tentato di usarli per un film, i dialoghi dei giovani al pub, per una sceneggiatura, e la sua fiction cartacea ridurla a soggetto di questo film, o d’una fiction televisiva, lasciando perdere la letteratura, e le sue voci incorporee, spettrali, e la sua bassa definizione delle immagini, il vago, l’indefinito “poetico”, e le lungaggini, e la verbosità (inevitabili), seduto lì al computer a imbastire una fiction cartacea? »
Sono rimasto zitto. Parlava la mia faccia. Ma le mie smorfie, la mimica facciale d’una scimmia, di una simia dei allo scrittoio, legata alla sedia; ma queste momeries, sì, proprio, queste momeries, di un attore del cinema muto che imitasse una scimmia; poiché non c’era uno specchio, sul tavolino o sulla parete di fronte, e non si dava, quindi, la sua testimonianza obiettiva; quelle mie facce, lo capite bene, m’è impossibile descriverle. La mia stupefazione, fredda, basìta, alla Buster Keaton, un Buster Keaton delle scimmie, me la dipinse sulla faccia il mio buffone interiore. Perciò (a parte la mancanza d’uno specchio) rilutto a descriverla: non me la riconosco, non era mia quell’espressione. Oltre di che, io non la vidi. Il domatore delle blatte, la Super-Blatta, ha riso in un tuono gongolante; senza ritegno e di gusto. Ha spento, in ritardo, la sua videocamera; e subito l’ha riaccesa.
« Terza domanda: riceve una proposta, dalla televisione, RAI 1. Riscrivere i dialoghi... un attimino, aspetti. Il titolo è meglio che lo legga sul mio block-notes. Gli anni del liceo sono lontani. Eccolo qua, sì: Operette morali, di Giacomo Leopardi. Le propongono, dalla RAI, di riscriverle: un dialogo. Uno dei meno pallosi. Per Gulp e Klak: lo sketch televisivo leopardiano andrà in onda (che colpo, complimenti) nel varietà del sabato sera, Ma che casino l’Italia.Accetta la proposta della RAI, oppure, prevedendo che sarà un flop, addótta una scusa, rinuncia? Terza domanda modificata: niente sketch televisivo, il suo editore è il committente. Il suo editore le propone (senta senta) di riscriverle e di svecchiarle. Anzi, di tradurle, queste Operette di Leopardi: nell’italiano d’oggi, magari in un gergo giovanile... »
Stavolta non ho retto, i muscoli della mia faccia si sono tesi, si sono induriti, io ho serrato le mascelle, e il buffone interiore, con una creta dura disseccata rugosa, lì tra le mani, inutilmente s’adoperava a plasmarla: mancava di plasticità la faccia dello scriba arcigno, perché lui vi potesse stampare quelle sue grandi meraviglie da monna, quelle sue comiche smorfie, lo sbattere le palpebre e l’aguzzare le labbra, il muoverle, quasi ciucciandosi le parole, la loro bava, ammutolito: la mimica facciale d’una scimmia. Il saggio folle, il moròsofo, il pantomimo, il Buster Keaton, l’attore comico del cinema muto, ha un bell’impartire degli ordini alla mia ghigna di creta indurita. Indocile, mi alzo dallo scrittoio. La Super-Blatta, invece di alzarsi a sua volta, continua a filmarmi, si gira sulla sedia, tolto in mano ed accostatosi all’occhio il suo aggeggio. Va inquadrandomi dal basso, mentre gli sto davanti in silenzio; e poi mi accompagna, mentre passeggio per lo studio, dove non entra più il sole, grazie a lui. Dall’alba al tramonto c’è un crepuscolo eguale, c’è un crepuscolo eterno, qui nel mio studio. E l’aria è viziata, morta, come nell’Ade. Teli di plastica, neri di smog, hanno impacchettato la Torre, sono calati sulle finestre. E tabelloni pubblicitari, uno per ogni lato, sei, l’accecano incombenti. Inalberano sei volte (girato a tutta la rosa dei venti, a 360°!) il loro ceffo rostrato. Lo stemma gentilizio del condominio: un gufo e una civetta indossatori di Armani. Di quale capo di vestiario, di quale accessorio prestigioso, e in che foggia mascherati, io sono stufo di ripeterlo. Sul becco a uncino inforcano, con gran disinvoltura, occhiali neri smisurati. Sei gufi e altrettante civette. Sei gigantografie assiro-milanesi.
« Ora, se lei permette, filmo la casa del Maestro. »
Io non ho tempo di afferrarlo per le spalle e avviarlo, per le spicce, verso l’ingresso, metterlo alla porta, o dirgli, viceversa: « Faccia pure », che lui, la Super-Blatta, già corre per l’appartamento. Vaga ovunque, e la sua videocamera, curiosa, luma soffitti e pareti, s’accerta dello stato del parquet. Ma, e i mobili d’antiquariato, i vasi? La stessa libreria? Quali i suoi autori? Quali i suoi patroni? Questo non gl’interessa? Ah, il motivo, ah il movente (criminoso) dell’intervista infine l’ha svelato l’ingegnere!: un’ispezione da compratore. Il mio appartamento è sul mercato. La Torre ai condomini, i locatari da case popolari, gli zingari, che se ne vadano dalla Torre!
« Le farò avere, quanto prima, una copia della videointervista. Grazie per avermela concessa. E, come vede, ho mantenuto la parola. »
« Io non ne dubitavo, ingegnere. »
La radunata delle sue blatte ai biascicati richiami del loro ospite e simbionte (schiocchi labiali: sorta di baci al telefono), l’accorrere in ingresso da ogni angolo buio, crepa, buco, vuoi nel piancito sconnesso vuoi alla base dei muri, là dove s’erano rimpiattate; l’accorrere delle ubbidientissime blatte, l’arrampicarsi sulle sue scarpe, alla diavola, e proseguire su per i pantaloni, frenetiche e festose, e decorarlo di mille amuleti: lo scarafaggio portafortuna; taluna, timida, alla svelta, riguadagnare la trincea di stoffa, talaltra infilarsi nelle sue tasche, salita ai piani alti, per dir così, di una torre vivente (di una torre mobile da assedio!) gremìta di scarafaggi; èbbe un che di magico; e mi sembrò, con mio vivissimo interesse, fornirmi la materia e il soggetto di un racconto (magico, per appunto) col quale ripagarsi dell’incomodo lo scriba incomodato. Ma ci vorrèbbe lo stilo di un antico naturalista, e la ingenuità dòtta, per rendere con l’evidenza dovuta un simile pandemonio, un simile imbarco da fiaba.

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