sabato 10 dicembre 2011

Tra feudo e mercato

Nelle Illusioni perdute (1837-43) di Honoré de Balzac, che descrive gli intrighi, la vanità, la corruzione di letterati, teatranti e giornalisti della Parigi del primo Ottocento, si trovano frasi come queste: “Il giornalismo è un inferno, un abisso d’iniquità, di menzogne, di tradimenti che si può attraversare uscendone puri solamente se protetti, come Dante, dal lauro divino di Virgilio” (Newton Compton, 2006, p. 161); “… quando vi sarete rovinato la salute e lo stomaco per dar vita a quella creazione, voi la vedrete calunniata, tradita, venduta, deportata nelle lagune dell’oblio dai giornalisti, seppellita dai vostri migliori amici”.
Con altrettanto disincanto e amarezza si può parlare oggi del nostro ambiente letterario. Accanto alla casta dei politici, mostrata in tutta la sua flagranza di privilegio da Sergio Rizzo e G. Antonio Stella nel celebre volume edito da Rizzoli nel 2007, accanto a quella dei professori universitari, denunciata da trasmissioni televisive come Annozero, accanto a quella dei giornalisti, nominata più volte da Beppe Grillo, non poteva mancare infatti la casta dei letterati, di cui ci ha raccontato qualcosa lo scrittore Antonio Moresco nell’autobiografico Lettere a nessuno, già edito da Bollati Boringhieri nel 1997, ora riedito in versione ampliata da Einaudi (2008).

Dagli anni novanta le cose sono ulteriormente peggiorate. Gli scrittori e gli aspiranti tali si muovono ormai tra feudo e mercato, sballottati fra i burrascosi flutti di uno strettissimo mare compreso fra Scilla e Cariddi… fra la decadente mostruosità di un contesto sociale rigidamente diviso in classi, sclerotizzato e poco dinamico, piccolo, chiuso e provinciale (per cui tu sei qualcuno perché eri già qualcuno, perché lo erano i tuoi genitori, i tuoi professori, chi sta dietro di te; altrimenti non sei nessuno), e la crescente mostruosità della produzione su scala industriale sempre più massiccia e massificante.
Oggi non è nemmeno più una questione di stile (postmoderno sì/postmoderno no; assimilabile/indigesto; comico/tragico; convenzionale/sperimentale; inoffensivo/eversivo) o di correnti letterarie. Persino lo sperimentalismo è diventato un genere a sé, da propinare a modiche dosi alle élites invitate a partecipare a Ricercabo o a qualche seminario post e parauniversitario. Ormai si può confezionare e vendere di tutto con le opportune strategie pubblicitarie, ma quello che tira di più sono spesso le merci più scadenti, che incontrano i gusti del pubblico con i più smaccati richiami a sesso e violenza, com’è noto. E’ diventata sempre più pressante la legge di mercato che privilegia i guadagni. Inoltre, a causa del continuo aumento di studenti e laureati, dei quali un buon numero costantemente inoccupati, si è ulteriormente infoltito il numero degli aspiranti che assediano riviste e blog alla ricerca di una breccia nella grande muraglia che protegge il privilegiato mondo dell’editoria. La ricchezza e la molteplicità dell’offerta rende difficilissimo, se non impossibile, farsi un’idea di tutto ciò che nasce, che fermenta nel sottobosco delle patrie lettere. Per cui anche il discorso che faceva Umberto Eco nel saggio I ventun modi di non pubblicare un libro di (Bompiani 1991), a detta del quale, “se qualcuno aveva qualcosa da dire si sarà messo alla prova su una rivista minore, avrà partecipato a qualche convegno, discussione, conferenza…” non è così scontato: avrà pubblicato sì, ma dove? come? Non tutti i libri, specialmente di autori sconosciuti, vengono letti, recensiti, tantomeno le fanzine, i blog…
E’ praticamente accertato che le grandi case editrici abitualmente non leggono inediti di sconosciuti, non rispondono oppure rispondono con brevi frasi standard, del tipo “Abbiamo letto con attenzione il suo testo e ci dispiace informarla che non rientra nelle scelte delle nostre collane”. S’intuisce l’esistenza di una barriera e lo aveva scritto a chiare lettere Eco nel saggio citato quando precisava che è inutile mandare in giro un dattiloscritto se il mittente è un perfetto sconosciuto.
Per quanto riguarda le case editrici piccole, sono impossibilitate a fare vera ricerca e selezione di esordienti “perché prive di rete distributiva e di prestigio, troppo sfiancate a pubblicare i libri dei propri editori o dirigenti editoriali o amici di questi” (Moresco, Lettere a nessuno, p. 40). Fin qui, niente di nuovo.
Le scuole di scrittura, nate perlopiù a scopo di lucro, spesso moltiplicano l’offerta di manoscritti sfogliati con disattenzione o comunque da respingere, osservava Moresco, poiché “neppure letture negative ma complete sono da aspettarsi, solo piluccamenti, letture iniziali o parziali, assaggi, come se fosse possibile avere una minima idea di una statua a figura intera vedendone esclusivamente l’alluce… Nel migliore dei casi lettura completa ma univoca e letteraria, e letterale, incapace di stacco, di sintonia con l’invenzione…” (p. 303). Va aggiunto questo: se qualcuno viene selezionato, i criteri della selezione sono improntati alla ricerca dell’effetto, degli elementi raccapriccianti e scandalistici dei nuovi prodotti, che devono comunque essere dati in pasto al grande pubblico. La clonazione di generi convenzionali adatti al gusto del pubblico è il primo obiettivo. Per esempio, è difficile trovare un libro largamente pubblicizzato che non porti l’etichetta noir appiccicata da qualche parte come la Vecchia Romagna. Noir è la parola magica con cui si spera di scuotere l’apatia degli italiani, in gran parte refrattari alla lettura, creando magari la speranza o l’illusione che ci sia da pescare nel torbido. Come il giornalismo di un certo tipo sbatte i mostri in prima pagina, così si chiede ai nostri romanzieri di concentrare il più possibile delitti e scene cruente nelle prime pagine. Tutti devono tirar fuori qualche morto ammazzato dal cappello magico delle loro narrazioni, altrimenti il libro risulta poco appetitoso, poco vendibile, debole (ecco un’altra parola chiave: debole). Eppure un romanzo come Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, per esempio, che pur affonda le radici in un humus passionale fatto d’ambizione, amore e morte, ha un inizio molto lento. Niente da fare: ai menager che presiedono le direzioni editoriali e il marketing della carta stampata importano soprattutto le vendite, i grandi numeri. L’urlo e il furore di Faulkner oggi sarebbe respinto perché a struttura complicata e ricco di complessi flussi di coscienza. Perdipiù l’autore rischierebbe di essere sbeffeggiato con frasi del tipo: “Ma poi - detto in confidenza - nei suoi libri non si capisce un cazzo! Non se ne rende conto? Mi scusi, ma lei se l’è andata proprio a cercare! Chi si crede di essere? Non ha mica vinto il Nobel!” (Moresco, p. 648). “Da una parte l’appiattimento giornalistico e informativo e la chiusura della parola nel solo circuito informazione-controinformazione, dall’altra l’uso totalitario e virtuale della categoria di finzione, vista come estrinseca e separata e non come uno dei modi possibili di vedere e patire e prefigurare e sognare l’esistente dall’interno dell’esistente” (p. 554).
Un esordiente che abbia un suo stile, una sua voce, non sia semplicemente un riciclatore di cliché narrativi già molto logorati dall’uso e non faccia un semplice montaggio di elementi prefabbricati, difficilmente viene letto con l’attenzione necessaria a cogliere il nuovo, l’originale, l’autentico. Scriveva nel suo diario, confluito poi in questa raccolta di lettere, Moresco negli anni novanta: “… sempre vengo fermato ai piani più bassi, bloccato da quella casta di burocrati-letterati che pullula attorno ai dividendi dell’industria culturale, che fa passare solo coloro che riconoscono uguali…” (p. 252).
Il consiglio degli addetti ai lavori, quando parlano in tono confidenziale, è a pervertirsi, a cambiare stile, a vendersi come uno dei tanti scrittori generalisti. “Ma lei deve imparare che in questo mestiere bisogna essere un po’ prostitute…” suggerisce, per esempio, Maria Corti allo scrivente ancora inedito (p. 212); ma lo stesso invito è implicito nelle parole del direttore editoriale della Rizzoli, Stefano Magagnoli, quando respinge la terza parte dei Canti del caos: in fondo loro pubblicano romanzi commerciali, generalisti, non si può pretendere troppo (p. 697).
Se qualche ignoto manoscrittaro, dopo lunga emarginazione o anticamera, riesce finalmente a essere ammesso nella cerchia esclusiva degli scrittori, non tarda a manifestarsi la forte competizione interna per emergere, per acquisire visibilità e fama. Da qui le alleanze, le convenienze, i bruschi voltafaccia, i tradimenti, gli attacchi taglienti dai blog più frequentati o dalle testate dei giornali, ad opera della potente e limitrofa casta dei giornalisti, con la quale avvengono continui e osmotici passaggi.
Nell’ultima parte di questa storia di uno scrittore è ancora più forte la constatazione di quanta aggressività possa essere messa in campo per la difesa dei propri interessi, della posizione raggiunta, a scapito dell’amore per l’arte e degli ideali da cui presumibilmente molti erano partiti. Tant’è vero che “la purezza è impossibile, intollerabile, è intollerabile anche solo sentirne ancora parlare, in questa epoca! (…) non è comunque un caso che questa sia una delle parole più criminalizzate (…) Niente da fare, questa è una parola pericolosa e sospetta, chi pretende di usarla deve essere tenuto in quarantena, la purezza non esiste, non è possibile, oggi si può essere solo dei camaleonti, dei maneggioni, dei marchettari, dei bricoleur, si può fare parte solo della grande alleanza dei furbi, dei mediocri, dei corrotti, dei riciclatori, dei cinici” (p. 447).


(1-12-08, Direfarebaciare)

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