mercoledì 4 febbraio 2015

Abitare il romanzo

Abitare vs costruire
A me pare che più che costruire un romanzo sia bello abitare un romanzo, una scrittura. Scrivere come abitare il tempo, racconto come un luogo da esplorare nelle sue diverse possibilità. Il verbo costruire presuppone un progetto ben definito, un procedere razionale, un tendere a qualcosa, perfino un elevarsi e un compiersi, che non sempre nella dimensione reale si verificano.
Tende a qualcosa il tempo? Fondamentalmente tende alla morte, quindi il racconto-tipo potrebbe consistere in questo avvicinarsi o palesarsi della morte, in questo rapportarsi con l'apparir del vero leopardiano. Magari stare in un racconto come in un diario non personale, non per forza autobiografico, preferibilmente di finzione. Oppure no. La questione è da esplorare: non soltanto trame puntiformi ma anche complesse.
Anziché costruire: abitare, esplorare, espandere. Orizzontalità anziché verticalità del narrare. Perché continuo a usare, nonostante tutto, la parola narrare? Se nulla si muove il racconto non nasce neppure, forse resta, ne migliore dei casi, un testo filosofico o saggistico. L'orizzontalità sarà mossa, almeno un po' increspata, dal momento che inquietudini, tensioni e dinamismi interni non possono mancare.
Non vorrei qui elencare i primi titoli famosi che vengono in mente a proposito degli spazi mentali esplorati nei romanzi (La nausea di Sartre, La montagna incantata di Thomas Mann, La palude definitiva di Manganelli, Dissipatio H. G. di Morselli, Il deserto dei Tartari di Buzzati, L'uomo avanzato di Mariano Baino) piuttosto che brani della Recherche o dell'Ulisse. Mi piace supporre che lo spazio per il dispiegamento di varie forme di pensiero, da quello argomentativo/analitico a quello associativo/intuitivo, trovi il suo luogo ideale proprio nella forma romanzo genericamente intesa: luogo dello stare, appunto, del resistere o risiedere o insistere dentro un confine dato; e dunque sia una possibilità offerta a chiunque si accinga a scrivere un romanzo.
Non m'immagino un abitare particolarmente ricco di comfort. Come discreto comfort, raro sollievo, immagino frequentazioni e dialoghi con amici o letture di scrittori e filosofi.
Infatti, che cosa rende una casa, anche povera, una splendida abitazione?, si domandava Heidegger nello scritto intitolato Abitare, costruire, pensare, che prende spunto dalla penuria di alloggi in Germania nell'immediato dopoguerra. L'abitare, modo specifico in cui i mortali stanno sulla terra secondo Heidegger, si contrappone al puro e semplice costruire, tipico anche degli animali per quanto riguarda le loro tane. Il costruire è finalizzato all'abitare e lo coltiva già nel suo farsi. La questione è che cosa vogliamo mettere dentro alle case una volta edificate. Che cosa distingue e caratterizza l'abitare umano? Le relazioni, i legami con gli altri. L'abitare è un prendersi cura all'interno delle pareti domestiche, ma anche per ciò che sta fuori: Heidegger aggiungeva infatti i legami con la terra e con il cielo (il tempo). Con questi legami s'intrattiene l'abitazione umana, che per Heidegger significa soprattutto avere cura, prendersi cura. Esistono quindi un abitare autentico e un abitare inautentico, a seconda che siano vive le relazioni o meno. Per abitare il tempo s'intende vivere la pazienza, non avere fretta, essere lontani da ritmi produttivi frenetici. E per rispetto della terra che cosa s'intende? Rispetto e valorizzazione degli spazi circostanti, una variante della relazione con gli altri, cura di ciò che sta intorno.