lunedì 30 ottobre 2017

La studentessa bambina

Un mio racconto degli anni novanta in relazione al tema delle baronie universitarie


Invece, di fatto, sono sola come un cane nella facoltà di lettere e filosofia senza le porte per entrare e senza neanche le porte per uscire. Con qualche strada che va a qualche ora nella facoltà murata, cammino verso la facoltà, si direbbe vita, invece non lo è perché gli appunti tirati giù sono monumenti alla ripetizione e penne di pappagallo. Alessandra Saugo

... In una città straniera, estranea a tutto... avvolta nei pochi stracci dei miei lutti... quasi una mendicante: notte, dammi la tua moneta di silenzio...
Perché sono sempre in viaggio? Qual è il mio nome? Esiste un nome al quale io possa rispondere? Esiste qualcosa per cui valga la pena essere chiamati? Io non sono nulla... Non ho neanche ricordi, neanche un luogo da cui provenire... Ah sì, c'è qualcuno che abita con me questo angolo sporco: è uno dei miei amanti. Sta ancora qui perché non sa dove andare. Intanto io non li distinguo, per me può restare. Può anche invecchiare qui, se vuole, e diventare infelice proprio dove lo sono io. Tanto non me n'accorgo, e neanche lui si accorge di me. Neanche gli amanti m'appartengono più.
Eppure qualcosa sono venuta a fare in questa città straniera. Sì, a prendere appunti. Seguo il corso di un professore all'università. E di che cosa si occupa? Di una teoria tutta sbagliata. Perché lo sto seguendo? Mi piace, a volte, ascoltare la voce delle persone. Al mattino vado in facoltà ad ascoltare voci: faccio la spesa di voci... La spesa? E chi mi mantiene? Parenti in pensione. Loro hanno lavorato tanto tempo fa, e hanno anche vissuto. Io non ho lavoro né casa. Sono una studentessa, un'eterna bambina-che-impara. E' strano: sono una bambina pur non essendo figlia di nessuno. Non sono quasi mai stata figlia. I miei non li ricordo: sono morti prima che li potessi ricordare. Gli amanti non li ho mai guardati in volto. D'altronde, non sono neanche una donna: uomo a me stessa, donna a me stessa, quando è il caso.


Una fortuna: la libertà. Vivo da sempre in una libertà quasi assoluta. Spaventosamente sola e così ostile... Chissà poi a che mi serve voler essere me stessa in modo così integrale… Anche le voci le ascolto come una musica, senza prestare attenzione alle parole. Leggo pure con disattenzione, come se tutto fosse una favola da assaporare prima di addormentarmi. Sprofondo sempre più nel buio. Mi lascio andare alla deriva di me stessa. Non ho ancora trovato i miei confini. Varco continuamente le mie colonne d'Ercole. Non ho più isole da conoscere. Sono stanca di approdare a isole. Sono Ulisse solo perché non sono nessuno.
Voglio andarmene da tutti i luoghi. Lasciatemi, abbandonatemi... Non voglio eseguire nessun lavoro. Nessuno specchio mi rispecchia. Non voglio dipingere il mio volto. Le mie labbra non sono rosse come frutti da mordere. Non ho (nessun) sorriso.
Lasciatemi cadere dove cadono le foglie, dove precipita il silenzio. Vorrei vedere solo boschi d'autunno e perdere il sentiero.
Non voglio più continuare la ricerca per il professore. L'argomento, ha detto, esula dai suoi interessi. Bisogna sempre lavorare da soli? Sono stanca di me stessa. E poi, dove conduce una ricerca? A nulla di definitivo. Una ricerca deve essere continuata eternamente. Sono stanca di continuare... Continuare come camminare... Voglio correre, cadere... Datemi un campo di asfodeli...!
Devo pur riuscire a ricordare, prima di restare sommersa, un momento in cui sono stata felice... O in cui sono stata viva a tal punto da non dimenticarlo... In una città del Nordeuropa dalle alte guglie scure e dai caldi locali accoglienti. Viaggiavo continuamente pure a quel tempo, per tentare di sfuggire all'ansioso controllo dei miei tutori. Provavo lo stesso senso di disorientamento che sempre mi seduce in ogni città straniera. Però v'incontrai Stephen. Vagavamo insieme fino all'alba, poi mangiavamo il pane appena sfornato, il primo pane del mattino. Così diventavamo i primi abitanti della città, poiché eravamo i primi a percepirla intorno a noi. Era come acquistare un'identità finalmente.
Errare senza meta è il mio modo preferito di muovermi. Questo, quando sono felice. Abitualmente, invece, sto ferma. Stare immobile è la mia condizione esistenziale. Respirare appena, in modo che non si accorgano di me. Però, quando sono felice, o serena, o tranquilla, nelle mattine luminose, mi piace lasciarmi scivolare lungo i quais. Si sa bene che anche questo vagabondare è un modo per non procedere, per stare ferma.
Volto continuamente le spalle a me stessa, sono una donna aux semelles de vent... Dietro di me c'è il buio.
Ha avuto senso lottare con i miei tutori, mangiare nebbia e freddo, studiare con le dita gelate, cadere vinta infine nell'indifferenza dei potenti? Gli amici sono stati quelli che si sono serviti di me, i nemici quelli che mi hanno lasciata morire ai margini della loro strada. Sei nata? Allora aspetta: morirai prima o poi. Devi solo aspettare. Ti resta la gioia della piccola fiammiferaia, della piccola mendicante: morire... dormire... dormire... forse sognare...
Ogni mia scelta è sbagliata. Non ho alternative. In ogni caso sono sconfitta: che scompaia o che continui a servire. In altri tempi forse potrà esservi un riscatto, ma nel breve periodo della mia vita i deboli sono troppo deboli.
Cerco, strisciando, di avvicinarmi a una condizione migliore: chissà, una casetta rallegrata da un mazzolino di fiori finti, un letto con una coperta imbottita, un impiego in una biblioteca di provincia: custodire come una vestale il fuoco sacro della cultura... Non riesco a ottenere niente. Forse non striscio abbastanza? Che cos'altro potrei ottenere? Fare i turni di notte in una fabbrica o vendere chincaglierie per qualcuno migliore di me che è riuscito a rubarle...
Non riesco a uscire da questo vicolo cieco. Mi sono sempre data da fare. Adesso sono stanca.
Forse l'assurdo è che ricerchi un ricordo in me che mi riassuma e illumini completamente, come se la mia vita avesse un centro e non fosse invece sparsa in vari luoghi e circostanze occasionali, come se non stessi spargendomi anche ora invano... Se vi è una causa di tutto questo, dev'essere la morte dei miei: è l'unico fatto che è accaduto, non è più successo altro... Sto forse cercando di raggiungerli? O sto solamente cercando di reprimere un forte desiderio di uccidere, che si rivolge, di conseguenza, contro di me?
So bene che non si può arrivare alla fine di se stessi, venirne a capo. Per questo accetto il mio ruolo di marinaio della sventura, di arcobaleno della fatalità. In ogni caso, mi pesa dover ancora urtare contro altri corpi coinvolti in questo caotico deviare, tutti nemici, tutti spinti in collisione gli uni con gli altri.
Vorrei sdraiarmi, su una panchina o sul muretto di un ponte. E aspettare... Qualcosa morirà prima o poi, cadrà di sonno in sonno fino a toccare un fondo senza memoria. E' l'oscuramento della memoria l'aldilà in cui spero. E dire che vi è stato un momento in cui avrei persino potuto essere salvata. Il professore mi ha chiesto di divenire la sua amante. Avremmo potuto vivere una nostra stagione luminosa e avrei allungato di un po' la mia vita. Ma è successo qualcosa di buffo: non gli ho risposto. Sono rimasta senza parole, forse ero incredula. Pensavo di non aver inteso bene le sue parole: sono stata alcuni minuti a pensare. Intanto il mio tempo è scaduto, lui si è sentito in imbarazzo e ha cambiato discorso. A quel punto ero convinta d'aver capito male. A volte la propria vita si decide in pochi secondi e io non sono mai stata pronta. Forse ho deciso in quell'attimo di sospensione cosa fare di me: in quell'attimo ho sospeso di vivere.


Pubblicato sulla rivista Nuova prosa n 16, Milano 1993. La frase in epigrafe, tratta da un libro di Alessandra Saugo, è stata aggiunta dopo.

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